Gli studi sul folklore e le raccolte di proverbi.
L'attenzione della letteratura nei confronti degli "umili", sorge in concomitanza allo sviluppo degli studi demologici e si iscrive nella tradizione narrativa italiana che va dal Manzoni, alla Percoto, al Nievo. Sebbene l'atteggiamento del Manzoni nei confronti degli "umili" venga definito da Gramsci "non nazional-popolare", ma "aristocratico" (1), e il Cocchiara sostenga che "gli umili" del Manzoni, della Percoto e del Nievo non sono gli umili del Verga (2), il Manzoni fu "il primo a far entrare gli umili nel romanzo" (3) e sotto questo aspetto "è molto piu' vicino al Verga di quanto non lo sia lo Zola, che vede nei suoi personaggi quasi cavie da esperimento" (4). Il Manzoni, infatti, avvertì l'esigenza di adoperare una lingua che determinasse "il difficile e complesso passaggio da una letteratura d'elite ad una letteratura popolare e nazionale" (5) e capovolgesse la situazione di privilegio della tradizione aulica con l'intento di rendere piu' naturale e spontanea la nostra prosa e riproporre in termini nuovi il rapporto tra lingua letteraria e lingua dell'uso, tra italiano e dialetto" (6).
L'arte del Verga quindi, « se pur stimolata da un movimento europeo, quale fu il naturalismo (...) potremmo però farla scaturire da quel gusto del popolare, la cui presenza precede il Manzoni e i manzoniani e che ora assumerà una nuova prospettiva (...) e dall'influenza tutt'altro che trascurabile degli studi delle tradizioni popolari allora fiorenti » (7) . L'interesse verso il mondo popolare della cultura romantica ottocentesca fu caratterizzato dalla « esaltazione della "spontaneità" della poesia popolare contro "l'artificiosità" di quella d'arte, (...) collocando i valori più alti proprio là dove si negava che potessero essere: nel popolo » (8) . Questa posizione romantica, al di là degli intenti conservatori, in quanto
« nell'alternativa tra il popolo come classe rivendicante il proprio diritto a governarsi da sé e ad avanzare sulla via del progresso e il popolo come primitività, attaccamento alle vecchie e buone usanze, sceglie sostanzialmente il medioevo ed esercita una influenza sempre più arretrata e negativa, a mano a mano che l'unificazione statale si realizza, ed a mano a mano che i contrasti sociali si vengono accentuando » (9), dà l'avvio allo studio dei fatti folklorici e segna l'affacciarsi del mondo popolare nella cultura dominante. Da parte degli studiosi di folklore fu avvertita l'esigenza di individuare nella produzione e nella circolazione dei fatti folklorici il ruolo o la portata delle classi dominanti e delle classi subalterne e le interazioni nei processi di ascesa e di discesa da una classe all'altra, gli adattamenti e le rielaborazioni dei fatti folklorici secondo i propri interessi e modi di sentire.
Tale esigenza appare evidente anche dalle raccolte di proverbi, nelle quali viene affrontato il problema riguardante la forma originaria dei proverbi, e la loro origine se culta o popolare.
Vincenzo Bondice, nella prefazione alla sua Raccolta di Proverbii siciliani in ottave, si chiede: "Nasce in me un altro desio di sapere se questi proverbi nacquero così a versi rimati come si dicono, affinchè si potessero con facilità a memoria ritenere; oppure sono essi chiusure di canzoni che gli antichi componevano, e facevano terminare con tali motti. Io abbraccerei questa ultima opinione a creder mio, mentre la rima affine, detta dai latini "similiter cadens" che conservano quasi tutti i proverbi, ci fa sospettare che fossero dei versi come rimasti da tante ottave" (10).
Ad avvalorare la tesi del Bondice sta il fatto che oltre alla sua stessa Raccolta rimata in ottave:
"Quannu 'mpignata a miu favuri tutta
Era furtuna, mia pirsuna accetta
Era ad ognunu, e quasi a la sdirrutta
Lu meghiu mi jittava la silletta;
Ora, ca già vutavi a testa sutta
Lu chiù tintu mi sputa, e chiù m'appretta;
cc'è ntra stu munnu ahimè! 'usanza brutta:
Ad arvulu cadutu accetta accetta" (11).
in ottave sono quasi tutte le raccolte di proverbi siciliani, da quella antica di Antonio Veneziano, citata nella bibliografia della Raccolta del Pitrè (edizione 1880) e datata 1628, a quelle dell'abate Paolo di Catania, e dell'abate Santo Rapisarda:
"Si la sorti si metti 'tra la sditta
Cu la sciabula a manu, e la scupetta,
Di l'omu sfurtunatu fa vinnitta,
E prestu a varva all'aria lu jetta;
Sazia non mai sarrà di sua scunfitta,
Si prima di ogni Seni non l'annetta,
Pirchì c'è dda sintenza maliditta
Ad arvulu cadutu accetta accetta" (12).
Ma da un attento esame delle raccolte, risulta che non tutti i proverbi sono collocati a chiusura di ottave, infatti nella raccolta di Cervantes(pseudonimo di Agatino Perrotta), La scienza di lù ngnuranti, vengono riportati a chiusura di suoi componimenti costituiti da dieci endecasillabi (una quartina+ 2 terzine):
"Sino a quannu la sorti ti va diritta
A la cunnutta tò nuddu ci varda;
Ma si cancia e ti veni la sditta,
La calunnia ti jetta la laparda.
L'omu quannu si timi si rispetta,
Pirchì guarda la vigna lu timuri,
E non havi bisognu di scupetta.
Ma a lu cadutu la so' petra jetta
Ognunu, e sfova lu anticu rancuri:
Ad arvulu cadutu accetta accetta" (13).
Per quanto riguarda il problema dell'origine, se culta o popolare, dei proverbi la soluzione non sembra univoca. Già da alcuni cenni biografici del Pitrè tiportati dalla Alaimo, si può rilevare un duplice interesse documentario rivolto sia agli "studi sul campo" sia alle "ricerche di Biblioteca". La passione per i proverbi sorse in Pitrè fin dall'infabzia: "lo stimolava e sorreggeva una vocazione prepotente, nata dall'ammirazione affascinata con cui, durante l'adolescenza, egli aveva ascoltato i numerosi familiari ed amici che infioravano di proverbi ogni discorso" (14); ma altrettanto forte è l'attrazione per le raccolte di proverbi: "in collegio s'imbattè nella Raccolta di proverbi Toscani del Giusti" (15).
L'ampia bibliografia che troviamo nella raccolta del 1880, dimostra la solida preparazione libresca del Pitrè. Analogo è però il desiderio di documentarsi dalla "viva voce del popolo", come dimostra una lettera ad un amico, dell'11 ottobre 1876, nella quale "si intuisce che il Pitrè aveva concordato con l'amico a cui essa è indirizzata, una gita a Cianciana (provincia di Agrigento), dove quest'amico svolgeva funzioni di notaio e di sindaco, lo desiderava da tempo suo ospite ed egli teneva a recarsi sperando probabilmente di potervi fare incontri fruttuosi fra la gente che in quella stagione attendeva alla vendemmia" (16).
Nella prefazione alla raccolta sopra citata, il Pitrè cerca di fare un bilancio delle pubblicazioni di proverbi asserendo che tutte insieme potrebbero fornire un grande numero di proverbi tra loro uguali e "quattro in cinquemila proverbi differenti l'uno dall'altro; perché o l'una ha servito di modello all'altra: e allora i proverbi differenti non potranno essere molto numerosi, o l'una dall'altra è stata indipendentemente compilata; e allora niente di più facile, che attingendo alla bocca del popolo, il raccoglitore si sia avvenuto negli stessiproverbi che altri udì e pubblicò prima di lui" (17).
Quindi dal Pitrè sono formulate due ipotesi:
1) la documentazione "dal vivo" dei raccoglitori dei proverbi;
2) la reciproca influenza delle raccolte di proverbi.
Vincenzo Bondice nella prefazione alla sua raccolta così scrive: "Più centinaia (di proverbi) ne scrisse il Marracalese Paolo di Catania; più centinaia il Chiar. Sac. Santo Rapisarda; ma sono essi que' tutti, che dagli antichi abbiamo ricevuti? No; di dì in dì ne ascoltiamo con nostra sorpresa uscir dal labbro del volgo dei nuovi tutti curiosi e frizzanti e sempre più va ad accrescersi a dismisura il loro catalogo" (18).
Nella ricerca dei proverbi sembra prevalere in Rapisarda la documentazione "dal vivo" su quella "libresca": "... nelle ore di ozio datemi a spigolar qua e là in bocca del volgo una larga messe de' migliori tra questi (proverbi) ... (19); però egli riconosce l'importanza degli studi dell'abate Paolo di Catania e di Antonio Veneziano, e seguendo il loro esempio colloca i proverbi in chiusura di ottave composte da lui: "Più di un nostro poeta si è impegnato a riunirli, ravvolgendo cadaun di essi nel corredo di altre massime nella stesa di un'ottava cui chiude esso proverbio. L'abate Paolo di Catania, ed Antonio veneziano furono i primi che s'indussero a tentar cosiffatto lavoro..." (20)
Tuttavia il desiderio del Pitrè e di altri raccoglitori di proverbi, di documentarsi dalla "bocca del popolo" e il credere che proprio quelli inventati dal popolo siano: "più curiosi e frizzanti" appare inficiato dal paternalismo che caratterizza il populismo romantico.
Nell'opera del Pitrè "manca ogni reale collegamento tra le indagini folkloriche che egli conduce tra i contadini di Sicilia e quella questione meridionale che allora si veniva proponendo in tutta la sua gravità"
(21).
Gli scarsi rapporti del Pitrè con i problemi reali del suo tempo lo portano a considerazioni sul popolo tipiche di gran parte degli intellettuali italiani, per i quali "l'espressione di umili indica un rapporto di protezione paterna e padriternale. Il sentimento "sufficiente" di una propria indiscussa superiorità, il rapporto come tra due razze, una ritenuta superiore e l'altra inferiore"
(22).
Infatti Pitrè afferma: "La locuzione primitiva che condusse al proverbio, fu individuale, non già di quell'ente collettivo che si chiama popolo, il quale per sua natura non è inventore. Solo qualche individuo, meglio dotato degli altri è creatore, inventore, iniziatore. Quanta verità non è nel proverbio neo-greco: "La parola esce da un sol labbro e giunge a mille"
(23).
La scarsa fiducia nelle capacità creative del popolo, dimostrata dal Pitrè, non esclude però che esso (popolo) abbia inventato numerosi proverbi.
Si può ragionevolmente dedurre che vi è stato nel tempo un processo di "discesa" dalle classi colte verso quelle subalterne e un processo inverso di "ascesa" dalle classi subalterne a quelle colte, nella circolazione dei fatti folklorici. In entrambi i casi si è verificato un adeguamento del contenuto e della forma dei proverbi al proprio modo di sentire, apportando numerose varianti e aggiunte.
Per quanto concerne la circolazione regionale e internazionale dei proverbi, sembra indiscusso il ruolo preminente, se non assoluto, delle classi colte, in quanto le possibilità di circolazione di uomini e di idee da una regione e da una nazione all'altra erano alquanto scarse per le classi subalterne.
Il proverbio, secondo la definizione data dal Pitrè nella sua Raccolta, è un "motto popolare, breve, conciso, che vale quando come una sentenza e quando come una massima, acconcia e creduta tale per la condotta pratica della vita".
(24).
Il suo carattere oracolare, quasi biblico, viene tramandato da generazione in generazione, si esprime nello spazio e nel tempo, nasce dal sentimento religioso, dal lavoro e dalle sue regole morali, da sentimenti quale l'amicizia e l'amore, da preoccupazioni economiche e di salute; in esso sono presenti sincretismi culturali, una commistione di sacro e di profano, di scienza e di superstizione, di saggezza e di opportunismo. In esso vi sono brevemente fissate regole generali di comportamento, che, nell'utilizzazione fatta da Verga per i Malavoglia, esprimono i concetti di attaccamento al lavoro e alla famiglia, le inquietudini pel benessere, le paure e le angosce delle classi subalterne in condizioni di vita durissime, di fronte alle quali alternano sentimenti di solidarietà a manifestazioni di egoismo, uno stoico rispetto delle leggi del lavoro e dell'onore a beghe meschine e a preoccupazioni di carattere economico. Il carattere sacrale, oracolare, biblico dei proverbi è stato sottolineato da gran parte degli scrittori che si sono occupati di demologia.
Vincenzo Bondice nella prefazione alla già citata raccolta di proverbi, afferma: "I proverbi sono precetti di civiltà di morale di verità, ne vi ha chi ne ignori l'utile e l'eccellente di essi. I proverbi sono i maestri di tutte le nazioni, gli oracoli di tutta la terra, i luminari del mondo incivilito: Essi contano tante etadi quanto il vasto creato n'enumera, poiché essendo il prodotto dell'esperienza degli uomini pare che rimontino con evidenza più alti che non Mosè i cui sacri libri di salutari masime ribboccano, più alti che non Salomone, il quale volle fregiare col titolo Proverbii uno dei libri suoi, che scrittor proverbiante lo appalesano; più alti che non Licurgo non Solone non Giustiniano non Caronda, i quali dettarono le leggi al popolo con uno stile sentenzioso pieno di argute sentenze e di succose proposizioni".
(25).
Il carattere universale dei proverbi viene messo in evidenza anche dal Rapisarda nella prefazione alla sua Raccolta: "Non vi ha nazione che non abbia i suoi proverbi, o sentenze popolari, come meglio appellar si vogliono".
(26).
Un altro studioso, Vito Graziano, nella sua raccolta Proverbi siciliani illustrati e confrontati con quelli della Sacra Bibbia, sottolinea il carattere biblico di gran parte di essi: "La concordanza dei proverbi siciliani con quella dei libri sacri fa acquistare ad essi maggiore veracità e importanza. Il Pitrè nei suoi quattro volumi dei proverbi siciliani ne illustrò molti (circa 200), confrontandoli con quelli dei sacri libri. A quelli del Pitrè ne ho aggiunto quasi altri 250 con uno scopo altamente morale, perché il popolo ha fede cieca nei proverbi, molto più se confrontano con quelli della Sacra Bibbia".
(27).
Ma la sacralità dei proverbi non è ascrivibile soltanto a quelli di contenuto biblico o religioso, ma anche ad altri proverbi di contenuto profano, poiché tutti indistintamente hanno la pretesa di verità assoluta, di regole categoriche di comportamento.
Essi sono " ... l'espressione di una fissità ideologica che si traduce in una fissità di formula, di rime, di cadenze metriche, di numero di sillabe".
(28).
L'assenza di dialettica è tipica della cultura popolare in cui la concezione del mondo è "non solo non elaborata e asistematica, perché il popolo (cioè l'insieme delle classi subalterne e strumentali di ogni forma di società finora esistita) per definizione non può avere concezioni elaborate, sistematiche, e politicamente organizzate e centralizzate nel loro sia pur contraddittorio sviluppo, ma anzi molteplice; non solo nel senso di diverso, e giustapposto, ma anche nel senso di stratificato nel più grossolano, se addirittura non deve parlarsi di agglomerato indigesto di frammenti di tutte le concezioni del mondo e della vita che si sono succedute nella storia, della maggior parte delle quali, anzi solo nel folklore si trovano i superstiti documenti mutili e contaminati ".
(29).